La questione dell’omicidio di Giovanbattista Cutolo, noto come Giogiò, continua a sollevare emozioni e indignazione tra i familiari e l’opinione pubblica. Dopo la sentenza di 20 anni di reclusione emessa il 19 marzo nel corso di un processo con rito abbreviato, la madre del giovane vittima si trova ora a dover affrontare la scioccante possibilità che il suo aggressore possa tornare in libertà dopo soli 14 anni. Le implicazioni psicologiche e legali di questa sentenza meritano di essere approfondite, sintomo di un sistema giuridico che, a suo dire, sembra tutelare più i diritti del colpevole che la memoria della vittima.
La sentenza e il suo significato
Il 31 agosto dello scorso anno, Giovanbattista Cutolo venne assassinato a Napoli, in Piazza Municipio, al termine di una lite difensiva in cui cercava di proteggere un amico. La condanna a 20 anni di carcere per il 17enne colpevole, basata sul rito abbreviato, ha suscitato un mix di reazioni tra chi ritiene che la pena sia esemplare e chi, come la madre della vittima, la considera del tutto insufficiente. In virtù della riforma Cartabia, la pena potrà ridursi ulteriormente, dando la possibilità al giovane di uscire dal carcere a soli 30 anni, un’età in cui gli utenti comune intraprendono la loro vita adulta.
La madre di Giogiò, Daniela Di Maggio, ha espresso il suo sgomento tramite i media, sottolineando quanto la paura di un futuro in cui il colpevole possa riacquistare la libertà la faccia sentire impotente. L’eventuale sconto di pena e il rientro del giovane nella società rappresentano una ferita aperta per la sua famiglia, che continua a elaborare il lutto per la perdita di un figlio. A straziare ulteriormente il suo spirito è la considerazione che il suo bambino giace “in un barattolo, ridotto in polvere”, e che il suo carnefice sia invece “tutelato dalla giustizia” come se ricevesse finanziariamente una sorta di riabilitazione.
L’impatto emotivo sulla madre e sulla famiglia
Daniela Di Maggio ha indossato il mantello della “madre coraggio” in questo drammatico scenario, dedicando tempo ed energie nella lotta per ottenere giustizia. La sua è una battaglia che va al di là della singola storia personale; si trasforma in una questione sociale, ponendo interrogativi sulle garanzie e sulle protezioni accordate a chi commette crimini gravi, specie quando il reo è giovanissimo. Daniela ha visitato istituzioni, partecipato a trasmissioni televisive e fatto sentire ancora di più la sua voce affinché vengano presi seriamente in considerazione i diritti delle vittime.
Il suo obiettivo principale è diffondere consapevolezza sull’ingiustizia avvertita, che è diventata un grido di dolore nei confronti di un sistema che sembra spesso non considerare le sofferenze dei familiari delle vittime. “Neanche 40 anni possono essere una pena giusta”, ha ribadito, perfettamente consapevole del peso della perdita e della frustrazione di una giustizia percepita come lenta, inadeguata e, in certi casi, quasi assente.
La richiesta di un cambiamento
Dopo aver assistito a tale svolta nel processo legale, il desiderio di Daniela Di Maggio di smuovere le acque della giustizia si fa sempre più forte. Il suo appello non è solo personale, ma mira a stimolare una riflessione più ampia sul significato di giustizia in un contesto dove i diritti delle vittime sono spesso messi in secondo piano rispetto a quelli dei colpevoli. “Il dono del perdono in questo momento non mi appartiene” ha affermato, esprimendo la necessità di un cambiamento nella normativa che ci si aspetta possa proteggere le vittime come la sua.
La sentenza che potrebbe portare a una liberazione prematura ha riacceso i riflettori su un tema delicato e spesso trascurato: quello delle vittime di omicidio e delle loro famiglie, che, oltre al dolore per la perdita, devono affrontare il tormento di un sistema giuridico che non sembra sempre andare incontro alle loro aspettative di giustizia. Un percorso lungo e tortuoso, simbolo di una somma di emozioni contrastanti, alla ricerca di speranza in un futuro più giusto e equo.