In un caso che ha scosso l’opinione pubblica locale, la Corte d’Assise di Cagliari ha assolto Dino Rizzoli, 78 anni, dall’accusa di omicidio volontario premeditato per la morte della moglie, Margherita Deidda. L’incidente che coinvolse la coppia ha portato alla drammatica conclusione di un gesto disperato e ha sollevato interrogativi sulla salute mentale dell’imputato. La sentenza, emessa dopo oltre due ore di camera di consiglio, ha rivelato una complessità psicologica che giustifica la decisione dei giudici di dichiararlo non punibile, a causa della sua incapacità di intendere e di volere.
Il tragico incidente
Il drammatico evento si è verificato nel luglio dello scorso anno sull’ex statale 129 bis, tra Suni e Sindia. Dino Rizzoli, alla guida della propria vettura, ha eseguito una manovra letale lanciandosi a folle velocità contro un pilone di un cavalcavia. Questo gesto estremo non era solo orientato a colpire un ostacolo fisico, ma rappresentava un tentativo di porre fine alla vita sia sua che di sua moglie, che da tempo soffriva di gravi malattie. Nonostante il grave impatto, Rizzoli è sopravvissuto, mentre sua moglie ha perso la vita nell’incidente. Un evento che ha acceso discussioni e riflessioni su temi come la disperazione e i fragili legami umani nei momenti più bui.
La testimonianza e la perizia psichiatrica
Durante il processo, Rizzoli ha espresso il suo profondo sconforto, dichiarando: «Non vedevo altre alternative, ero disperato. Ma ancora oggi mi chiedo perché non sono morto pure io». Le sue parole, intrise di disperazione, hanno portato la Corte a richiedere una perizia psichiatrica. L’esperto nominato, Diego Primavera, ha confermato che Rizzoli soffriva di un “totale vizio di mente” al momento del tragico evento. Questa valutazione ha giocato un ruolo cruciale nel processo, poiché ha evidenziato che l’imputato non era in grado di comprendere la gravità delle sue azioni e, di conseguenza, il suo stato mentale riduceva notevolmente la sua responsabilità penale.
La posizione della pubblica accusa e della difesa
Il pubblico ministero Andrea Chelo ha richiesto una condanna a 12 anni di reclusione, sostenendo che Rizzoli avesse una capacità di intendere e di volere, anche se ridotta. D’altro canto, la difesa, rappresentata dagli avvocati Roberto Novellino e Paolo Deidda, insieme allo psichiatra Mirko Manchia, ha ribadito l’immensa sofferenza psicologica dell’imputato. Rizzoli, secondo la difesa, avrebbe agito come risultato di un dolore insopportabile, deciso a compiere un gesto disperato per porre fine alla sofferenza sua e della moglie. Questo contrasto tra la richiesta di pena e la posizione della difesa ha reso il processo particolarmente complesso e emotivamente carico.
La sentenza e il suo significato
La sentenza finale, dichiarando Rizzoli non punibile, ha chiuso un capitolo tragico e doloroso. I giudici hanno spiegato che l’imputato, non essendo in sé al momento dell’incidente, non può essere condannato per le sue azioni. La decisione è stata letta pubblicamente dopo un’attesa angosciante. Rizzoli aveva anche lasciato dei biglietti di addio, confermando le sue intenzioni suicidarie. Tuttavia, l’esito del processo è stato un momento di riflessione profonda per l’intera comunità, sollevando interrogativi morali e legali sulla responsabilità e sul supporto necessario per le persone in situazioni di estrema sofferenza. Il caso di Dino Rizzoli non è solo una tragedia personale, ma rappresenta anche una questione sociale riguardante la salute mentale e il supporto per le persone in situazioni critiche.